Dom ALESSANDRO BARBAN Priore Generale della Congregazione Camaldolese sarà a Serra de' Conti SABATO 18 MAGGIO 2019 ore 17 Sala Italia
 
Nell'ambito della seconda edizione di "MONACHESIMO: LO STRAORDINARIO NELL'ORDINARIO, I fondamenti della vita monastica", si avvicina il terzo appuntamento, che vede la presenza di un relatore di spicco, nonché monaco camaldolese (come il patrono di Serra de' Conti Beato Gherardo): Dom Alessandro Barban.
Tema della sua conferenza sarà: "LECTIO DIVINA, la Bibbia come strumento di interpretazione della vita". Uno dei fondamenti della vita monastica è infatti proprio il costante confronto del monaco con le Sacre Scritture. Barban ci dirà come e quanto esse siano una potente e illuminante chiave di lettura dell'esistenza umana.
Siamo orgogliosi di ospitare questa presenza monastica, sempre stimolante, aperta all'umanità e al rapporto tra religioni diverse. Testimone e protagonista di un prezioso ed interessante fervore culturale, oltre che spirituale, Barban, insieme a tutta la Comunità Camaldolese, contribuisce ad arricchire in maniera singolare ed innovativa la realtà umana ed ecclesiale di questo tempo.

Alessandro Barban, dopo gli studi classici ha conseguito la laurea in Lettere all'Università degli Studi di Bologna. Entrato a Camaldoli, è monaco camaldolese dal 1984. Ha studiato teologia al Pontificio Ateneo S. Anselmo e alla Pontificia Università Gregoriana (Roma). Dal 2001 al 2008 è stato professore di teologia sistematica al Pontificio Ateneo S. Anselmo. Svolge un'intensa attività di conferenziere affrontando temi di teologia, filosofia e di attualità politica. Attualmente è Priore Generale della Congregazione Camaldolese.
 
 
 
 
 
Padre Barban, quando e come nasce la sua vocazione monastica?

Il primo desiderio di orientarmi a una consacrazione religiosa è cominciato verso gli 11 anni. Ho avuto un'esperienza molto importante alla periferia di Ferrara, dove non c'era la chiesa costruita: con altri giovani abbiamo animato per circa 10 anni una comunità cristiana che si radunava in un garage. Da quella esperienza, poi, monsignor Filippo Franceschi, allora vescovo di Ferrara, organizzò una parrocchia tuttora esistente, San Giuseppe Lavoratore. Quell'esperienza ha coinciso anche con gli anni del liceo classico e poi dell'università - mi sono laureato in storia contemporanea a Bologna con una tesi sul sistema politico italiano confrontando il pensiero di De Gasperi e di Moro. Andavo spesso a Camaldoli: finita l'università, decisi di fare una prova più consistente. Ho compiuto tutto l'iter: postulantato, noviziato, professione semplice, studi di teologia a Roma - al Pontificio Ateneo Sant'Anselmo e poi alla Gregoriana. Sono diventato monaco nel 1989, e l'anno dopo presbitero - noi diventiamo sacerdoti dopo i voti solenni. Poi ho avuto un'esperienza breve, ma molto intensa, di insegnamento di teologia al Pontificio Ateneo Sant'Anselmo per 7 anni. Ho anche animato dall'interno la comunità di San Gregorio - mi occupavo di un cammino di lectio divina e di alcune settimane teologiche a Camaldoli, in estate. Nel 1997 sono stato eletto priore di Fonte Avellana, e da allora sono qui.
 
Lei scrive che "l'ospitalità permette al monaco di non morire (ovvero di non fissarsi), bensì di continuare ad essere sia unificato che aperto". Del resto il capitolo 53 della Regola di san Benedetto prevede che "tutti gli ospiti siano ricevuti come Cristo in persona, perché egli dirà: ero forestiero e mi avete ricevuto".

Credo sia molto importante rimanere non solo davanti a Dio con la preghiera e la testimonianza, ma anche rimanere davanti agli uomini per ascoltare disagi, dubbi, inquietudini, vuoto e scompensi di senso presenti nelle vite degli uomini e delle donne. Ascoltare una sorella o un fratello che arriva è un altro modo di pregare. Sembra un po' paradossale, ma è la stessa invocazione quella rivolta a Dio e quella rivolta agli uomini. La parola di risposta a Dio nella scrittura e la parola di risposta alla domanda che viene da un fratello. La gente ci ringrazia spesso per l'ospitalità e il dialogo, ma alla fine non so veramente chi riceva di più: noi riceviamo tanto dagli ospiti. È uno scambio molto profondo.
 
Qual è oggi il ruolo e il significato del monachesimo all'interno della vita della Chiesa?

Purtroppo la presenza del monachesimo è quasi marginale. È vero che i monaci hanno sempre preferito un profilo marginale nella loro storia anche se nel medioevo le grandi abbazie erano luoghi di enorme prestigio e influenza. Il concilio Vaticano II, però, mettendo al centro la liturgia, la parola di Dio, la Chiesa come comunione, il dialogo aperto al mondo e alle altre religioni, ha fatto apprezzare maggiormente il monachesimo, trattandosi di filoni a lui consoni. Alcuni hanno detto che fondamentalmente è stato un concilio monastico! Ad esempio, la Chiesa ci ha invitato tante volte a tenere vivi i rapporti con il monachesimo presente nelle altre religioni, pensiamo a induismo, buddismo, ma anche alla tradizione musulmana, al sufismo. Credo che il monachesimo oggi abbia tante possibilità, abbia grandi capacità di intercettare dentro la Chiesa filoni che gli sono propri. Certo, siamo anche soggetti a queste case così importanti, che ci impegnano molto per tenerle aperte. Dobbiamo stare attenti: le nostre energie non devono finire tutte nel lavoro di restauro! Dobbiamo evitare che i nostri monasteri diventino musei: devono essere invece case cristiane aperte e accoglienti.
 
Un po' Marta e Maria.

Certo, infatti il nostro motto è ora et labora. Credo che il monachesimo abbia ancora molto da dire alla Chiesa di oggi: però i monaci vanno ascoltati. Paolo VI aveva addirittura detto che i monaci sono il cuore della Chiesa. È stato molto generoso! Del resto, Benedetto XVI ha spiegato di aver scelto il suo nome anche da san Benedetto, questa radice importante della tradizione e della cultura dell'Europa cristiana. Questo ci ha fatto molto piacere perché è una memoria. I monaci non vogliono essere protagonisti nella vita della Chiesa, però forse custodiscono la memoria di una tradizione e di un'esperienza di fede, avendo un loro modo di stare nella Chiesa. Non è vero che sia qualcosa di vecchio e superato: penso, invece, siano elementi che farebbero molto bene alla Chiesa di oggi, alle nostre comunità parrocchiali e territoriali. Quanto il monachesimo potrebbe dare ancora alla Chiesa oggi è, forse, uno stile di vicinanza agli altri. L'ospitalità non è solo l'ospite che arriva a casa tua, ma sei anche tu che ti fai ospite. I monaci sono molto bravi a far questo perché sono stati anche pellegrini. Ed è anche molto evangelico: Gesù dice andate, fermatevi in una casa, state dentro quel contesto.
Farsi ospitare: questo è forse lo stile che oggi il monachesimo potrebbe ancora dare alla Chiesa.
 
Lei ha accennato a che cosa il concilio Vaticano II ha recepito del monachesimo: in cosa, invece, il Vaticano II ha cambiato il monachesimo?

Il concilio Vaticano II ha aiutato il monachesimo a riscoprire veramente le sue radici. Dopo Trento, gli ordini si erano un po' omologati. È vero che i monaci non erano come i gesuiti o i domenicani - o i salesiani poi - però le differenziazioni non erano così evidenti. Invece il Vaticano II ci ha fatto riscoprire le radici dei nostri fondatori e dei nostri carismi, aiutandoci a connotare maggiormente ogni singolo ordine religioso. Così abbiamo potuto anche riscoprire la Parola di Dio: forse prima del concilio, nei monasteri si vedeva un certo pietismo, un certo devozionismo, mentre oggi viviamo una vita più spirituale. Ci siamo liberati di certe formule e pratiche esteriori, per concentrare la nostra attenzione sulla Parola, sulla lectio, sullo studio della teologia, sull'approfondimento della spiritualità.

Qual è il ruolo e il significato del monachesimo nel mondo laico e secolarizzato del XXI secolo?

Dipende anche dalla nostra preparazione. Oltre alla teologia e alla spiritualità, molti di noi studiano seriamente la filosofia, e nella nostra tradizione abbiamo avuto famosi matematici e scienziati. Oggi dobbiamo stare molto attenti poiché, come dicevo, è importante avere il linguaggio degli uomini contemporanei, il che significa che bisogna anche conoscere ciò che sta avvenendo nel mondo, ad esempio in medicina e in astronomia. Non in modo dilettantesco, ma studiando seriamente. Nella tradizione monastica non c'è stata solo la specificità di un approfondimento di tipo spirituale - certamente è la prima cosa: ci facciamo monaci per questo! - ma abbiamo anche la gioia di continuare le nostre ricerche e i nostri studi. Credo, quindi, che il mondo laico non debba far paura: occorre conoscerne la lingua e le ricerche per tentare un rapporto, una fecondazione.

Quindi c'è anche un arricchimento culturale che può venire al mondo laico dal monachesimo, come poi è nella sua tradizione.

Sì, il monachesimo ha sempre coltivato una grande cultura. Quando si è impoverito culturalmente, guarda caso si è anche impoverito spiritualmente, e la sua marginalità è stata netta nella Chiesa e nel mondo. Quando invece la spiritualità è forte, è forte anche la tensione culturale. Allora si riesce a parlare questa lingua, questa parola che è insieme ricca di spirito e di cultura. Il mondo laico è molto attento su questo: quando si accorge che c'è competenza dentro la Chiesa, diventa estremamente rispettoso.
 
Dal vostro sito proponete esperienze di ospitalità fatta di preghiera, lectio divina e silenzio. Vorrei analizzare con lei questi tre aspetti. Cos'è la preghiera?

La preghiera è una parola che noi rivolgiamo a Dio come risposta a una Parola che Lui ci ha rivolto prima. La nostra spiritualità è incentrata sull'ascolto della Parola. Ora nella sacra Scrittura c'è la lettera, ma noi sappiamo che c'è anche un senso molto più denso e nascosto. Quando uno riesce, nel silenzio e nella sua ricerca spirituale, a cogliere questa parola più profonda e l'ascolta, è come se questa parola fosse una parola interpellante, che si appella a te. Allora la preghiera, in questa chiave monastica, è proprio rispondere a questa Parola di Dio che ti è stata rivolta. Non è dire semplicemente delle formule - anche se i monaci hanno conosciuto e conoscono questa tradizione, e la praticano: è la formula litanica della preghiera. Dobbiamo imparare dai Salmi: in ogni preghiera c'è il momento del dubbio, il momento della richiesta, dell'invocazione, del lutto, c'è la meditazione sul presente, sulla storia, c'è il rendimento di grazie, la lode. Molte persone dicono: a me basta il Padre nostro. Il Padre nostro è una preghiera splendida, è la preghiera che Gesù ci ha insegnato, è il salmo di Gesù. Gesù, masticando i salmi e la scrittura, è riuscito a formulare questo salmo. Ecco, quella parola che tu dici a Dio, come risposta a quella parola interpellante che ti è arrivata, diventerà, piano piano nel tempo, il tuo salmo: come Gesù ha detto il suo salmo, come Maria ha detto il suo che è il Magnificat e Zaccaria il Benedictus. La Bibbia è tutta attraversata da preghiere. Ed è sempre una preghiera con una relazione profonda con Dio. Le preghiere che diciamo non debbono lasciarci soddisfatti: dobbiamo imparare la grammatica, le parole, pian piano dobbiamo alfabetizzarci con il nostro grido e la nostra preghiera profonda di risposta a quello che Dio ci ha detto. La preghiera può essere di tanti tipi. L'importante, però, è avere la consapevolezza di preparare nel corso del tempo il nostro salmo. È questo che Dio ascolta.
 
Il secondo punto è la lectio divina, che lei ha scritto non essere "una pratica da aggiungere ad altri esercizi religiosi: essa dischiude invece un cammino spirituale". Ha parlato di "un movimento circolare" nella vita monastica camaldolese, dove la lectio divina "ha la sua fecondazione e germinazione nella cella, cresce come un processo lievitante di ascolto e di preghiera nella liturgia, diventa offerta di se stessi nell'esistenza concreta di ciascun monaco nella koinonìa comunitaria, si conclude come hesychìa ancora nella cella".

La lectio divina è un'esperienza. Non è semplicemente un concetto da tramandare, è più una pratica concreta. Ecco perché è molto importante la cella, il silenzio, il raggio di sole che entra dalla finestra, il libro. Tutto comincia lì: la cella è come un grembo, vieni quasi concepito da questa parola. Poi si esce e si va alla liturgia: dopo il momento personale e isolato, c'è il momento propriamente liturgico con i fratelli. E anche nel lavoro si continua sempre la meditazione. La ruminatio della parola va dal mattino alla sera, e prosegue anche durante la notte perché molte volte ti svegli continuandola. Questo modello monastico, questo format, lo vedo seguito oggi anche da tanti laici: conosco persone che si alzano presto al mattino, che dedicano mezz'ora di silenzio e di ascolto al Vangelo prima di uscire, persone che si portano dentro un passo della Scrittura e cercano di ricordarselo durante la giornata, che vanno alla messa quotidiana. Non è solo un modello del monaco. Certo, noi siamo dei "privilegiati", perché c'è tutto un ambiente, uno stile, la campana che suona, la liturgia calibrata da tanti anni in una certa maniera, il canto, la cella. Ma tutto questo non è impensabile anche per un laico.

Il terzo punto è invece il silenzio.

Oggi c'è un desiderio enorme di silenzio perché nella nostra società c'è il caos, l'inquinamento non solo luminoso, ma acustico, che è devastante per l'anima. Tanta gente si sente spaesata, demotivata, perduta nel quotidiano perché non batte qualcosa. Non è semplicemente il tocco della campana: non batte più una parola pregnante, la parola di Dio nella nostra vita. Allora le persone provano un desiderio enorme di solitudine vera e di silenzio. Però non sono abituate: non sanno cosa farne del silenzio. Il silenzio sembra vuoto, sembra di annegarvi dentro. È una specie di cancro spirituale: se l'uomo non sa assaporare il silenzio e la propria solitudine, se ha sempre bisogno di riempire la sua vita di cose, parole e chiacchiere, a un certo punto si troverà veramente vuoto e demotivato. Bisogna ritrovare un esercizio di silenzio. I monasteri possono, spero, insegnare cosa fare: bisogna imparare a respirare, a leggere, a pensare, a riflettere, bisogna coltivare il desiderio dell'incontro, della comunione e della comunicazione. Oggi parliamo a vanvera, non diciamo più parole significative. Solo una parola nata dal silenzio può essere offerta all'altro, può creare comunicazione vera. Questo esercizio è qualcosa che oggi non c'è nelle famiglie, la scuola non lo insegna, ed è anche molto difficile nelle nostre parrocchie. Forse, sono rimasti i monasteri. Bisogna entrare con fiducia in un monastero e lasciarsi condurre ad assaporare l'arte del silenzio.
 
Se fino a ieri in Italia eravamo pressoché tutti cattolici (o tali almeno dicevamo di essere o ci sentivamo), oggi le cose sono cambiate. Questo passaggio storico pone sui credenti un nuovo onere di testimonianza. Eppure non è facile: dal momentio che il credente è sempre in cammino!

Oggi ci viene chiesta, nell'ambito morale, economico e sociale, una coerenza nuova che, credo, sia molto importante. La coerenza dipende anche dalla prassi religiosa, dalla maturazione, dalla qualità della fede che stiamo vivendo. È una cosa veramente seria. Prima eravamo tutti cattolici, e forse ci si poteva un po' giustificare. Invece adesso, vivendo in una società plurale (non solo nei confronti dei laici, ma anche verso quanti appartengono ad altre religioni), giustamente ci viene chiesta coerenza. Grazie alla preghiera e alla conversione, forse domani riusciremo a testimoniare. Non dobbiamo quindi deprimerci se non ne siamo sempre del tutto capaci. Ovviamente poi anche tra noi credenti si affacciano le grandi domande, ad esempio quelle relative alla bioetica. Stiamo cercando le risposte più vere alla luce della nostra fede: è un cammino che stiamo facendo. In questi ambiti così profondi e nuovi - dieci anni fa non esistevano - dobbiamo saper dialogare anche con i laici e con le altre religioni. Dialogare con serenità: altrimenti rischiamo di diventare fanatici.